Nacque a Venezia l’11 marzo 1924 da Enrico e da Cecilia Faccin. Si iscrisse alla facoltà di medicina e chirurgia di Padova e già da studente orientò i suoi interessi verso la psichiatria, iniziando a frequentare la clinica neuropsichiatrica di quell’università, allora diretta da G. Belloni. Indirizzatosi subito verso la carriera universitaria, in quella stessa clinica, dopo aver conseguito la laurea e la specializzazione in malattie nervose e mentali, divenne assistente, titolo che avrebbe mantenuto fino al 1959; nel 1953 aveva sposato Franca Ongaro. Le sue prime esperienze di lavoro e di studio si avviarono in un ambiente improntato all’indirizzo neuropsichiatrico organicistico, allora prevalente nella cultura psichiatrica italiana sia nell’ambito accademico sia in quello ospedaliero.
A Padova, come del resto nella grandissima maggioranza delle università e degli ospedali psichiatrici italiani, la cultura psichiatrica dominante nel secondo dopoguerra era quella proposta da personale formatosi intorno agli anni Venti. Sufficientemente refrattaria a quanto in Europa, e non solo in Europa, si stava cercando di studiare sugli aspetti psicologici, psicodinamici e antropo-fenomenici della vita dell’uomo, la cultura psichiatrica italiana, sia accademica sia manicomiale, appariva attestata su posizioni pressoché esclusivamente organicistiche, impegnata in ricerche di tipo anatomo-patologico, classificatoria secondo i codici kräpeliani e postkräpeliani. Il trattamento asilare, con finalità custodialistiche più che terapeutiche, non aveva valide alternative. La cura, d’altronde, in quegli anni andava sperimentando le prime applicazioni dei primi neurolettici e antidepressivi, ma restava ancora in massima parte legata alle terapie di shock (con insulina ed elettricità).
Dopo un primo, breve periodo di adattamento al modello di ricerca scientifica prevalente, il B. iniziò a distaccarsi dalle posizioni della clinica padovana e fu tra i primi in Italia ad interessarsi al pensiero fenomenologico esistenziale che trovava in E. Minkowski, L. Binswanger, E. Straus, J.P. Sartre, ecc. la proposta di un’interpretazione e applicazione pratico-teorica al campo psichiatrico. Questo pensiero filosofico offriva al B. la possibilità di rispondere all’esigenza di avvicinare il malato mentale senza i diaframmi impliciti nella rigida definizione sintomatologica delle sindromi, attraverso la comprensione delle sue diverse modalità di esistenza. I presupposti teorici della fenomenologia fornivano così gli strumenti per avviare una contestazione della psichiatria come disciplina medico-scientifica e per avvicinarla ai temi di una cultura antropologica. Il B. iniziò dunque a sottrarsi ai vincoli di una visione oggettuale quale era quella imposta dal metodo scientifico di una medicina positivista e si avvicinò alla lettura della modalità di esistenza del malato fuori della nosografia sintomatologica tradizionale.
Il primo gruppo delle sue pubblicazioni lo mostra aderente ai temi e ai metodi di ricerca scientifica che improntavano la clinica universitaria. L’interesse, tra il 1951 e il 1953, sembra polarizzato su argomenti di psicodiagnostica. Il B. si occupò dell’applicazione clinica di alcuni test mentali, di efficienza intellettiva e di proiezione; studiò i test di associazione verbale e il test del disegno, dedicando successivamente una serie di lavori al test di Rorschach. Dedicò inoltre alcuni lavori ai temi allora dibattuti di diagnostica e clinica psichiatrica, in ordine al problema nosografico degli stati ossessivi e degli stati depressivi, nonché a temi di terapia sull’azione di alcuni psicofarmaci.
Il suo avvicinamento al pensiero fenomenologico è testimoniato da una serie di pubblicazioni di psicopatologia e di clinica. I lavori principali di questo periodo furono quelli pubblicati nel 1956: Il corpo nell’ipocondria e nella depersonalizzazione. La struttura psicopatologica dell’ipocondria (in Rivista sperimentale di freniatria LXXX, ora in Scritti, I, pp. 137-164) e Il corpo nell’ipocondria e nella depersonalizzazione. La coscienza del corpo e il sentimento di esistenza corporea nella depersonalizzazione somato–psichica (ibid., ora in Scritti, I, pp. 165-206).
Conseguita nel 1957 la libera docenza nella disciplina, nel 1961 si trasferì alla direzione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Questa destinazione, rispetto alla prospettiva di una carriera universitaria, poteva assumere il sapore di un abbandono, condizionato dai limiti che aveva incontrato. Segnò invece una tappa importantissima nell’itinerario di evoluzione del suo pensiero. Il B., divenuto direttore del nosocomio senza aver precedentemente maturato un’esperienza diretta di lavoro negli ospedali psichiatrici, non tardò ad esprimere la sua reazione di rifiuto di quella realtà. Identificò certi ordinamenti, regole e consuetudini manicomiali come strumenti della violenza istituzionale, coercitiva e autoritaria, nella quale riconosceva un meccanismo segregante e un significato classista. Individuò in quel sistema e nei suoi metodi di cura la causa prima dell’istituzionalizzazione del malato e l’ostacolo ad un intervento che fosse invece adeguato ai bisogni che la malattia mentale esprime.
L’ospedale psichiatrico di Gorizia era un’istituzione in cui sopravvivevano meccanismi di contenzione e abitudini desolanti che evidenziavano le contraddizioni di certa psichiatria asilare. L’ospedale, dopo le vicende della guerra, si era trovato collocato sul confine con la Iugoslavia ed era una delle strutture sulle quali si concentravano i disagi di quel territorio, anche in ordine a conflitti e problemi socio-ambientali. La provincia di Gorizia contava circa centotrentamila abitanti e l’ospedale aveva una popolazione di circa cinquecentocinquanta ricoverati, con un tasso di ospedalizzaziope molto alto. Dei ricoverati, circa centocinquanta erano di nazionalità iugoslava e restavano in Italia in applicazione del trattato di pace quale spesa di riparazione bellica a carico del ministero degli Esteri. Erano quindi persone inamovibili. Dei quattrocento che restavano, trecento erano malati cronici lungodegenti.
A Gorizia il B. accese la lotta contro il ricovero asilare lavorando contro l’istituzionalizzazione dell’intero ospedale, dei medici, degli infermieri e dei malati. La sua opera impose alcune misure: l’eliminazione dei mezzi di contenzione meccanica, la ripresa dei contatti con l’esterno, l’abbattimento delle barriere fisiche, recuperando l’antico concetto dell’open door. Introdusse un più largo uso degli psicofarmaci e curò la riqualificazione teorica e umana del personale. Questi interventi furono certamente anticipatori rispetto al generale panorama della psichiatria italiana e portarono alla costituzione di una prima comunità terapeutica sulla quale si concentrarono in quel periodo le energie del Basaglia.
Le nuove esperienze di Gorizia accesero presto discussioni in ambito psichiatrico, fecero conoscere la figura del B. e richiamarono l’attenzione dell’opinione pubblica anche al di fuori dei ristretti circoli specialistici. Il B. raccolse intorno a sé un gruppo di psichiatri in sintonia con le sue posizioni, tra i quali A. Pirella, G. Jervis, A. Slavich, D. Casagrande, che furono suoi validi collaboratori. Fu di grande importanza anche l’aiuto della moglie, Franca Ongaro, che ebbe una parte di rilievo nello sviluppo delle sue attività e del suo pensiero. Gli anni di Gorizia furono un periodo di oneroso impegno non solo sul fronte interno, ma anche sul piano della diffusione e della divulgazione delle idee negli ambiti più vasti. A fronte di netti contrasti con gran parte della psichiatria ufficiale, il gruppo di Gorizia seppe acquisire infatti ampi consensi, dentro e fuori l’ambito specialistico, e seppe porsi come punto di riferimento per la psichiatria d’opposizione che acquistava spazio sia negli ospedali sia nelle università.
Fu dunque nell’esperienza di Gorizia che prese corpo la dimensione più originale del pensiero del Basaglia. Non gli sfuggirono certamente idee e fermenti innovatori che investivano la psichiatria europea proprio in quegli anni e che davano vita anche ai primi movimenti di opposizione interna alla psichiatria. Egli conobbe le posizioni di R. Laing, di D. Cooper, di T. Szasz, tuttavia rispetto al movimento di antipsichiatria anglosassone, egli si pose fino dall’inizio con una sua originale collocazione.
Nell’impatto con i meccanismi di un sistema e di una struttura ospedaliera coercitiva e autoritaria, egli trovò gli stimoli della sostanziale evoluzione del suo pensiero e divenne protagonista del primo e più importante tentativo di depsichiatrizzazione e deistituzionalizzazione del malato mentale in Italia. Con il lavoro a Gorizia e a Trieste poi, e con l’incessante attività di sostegno anche politico di queste idee, egli diede energico impulso ai movimenti di opposizione psichiatrica. Nel suo ospedale rovesciò il ritmo istituzionale e aggredì le premesse di una realtà che, a suo parere, identificava il concetto di malattia con quello di esclusione e di emarginazione. Prese posizione contro l’impostazione di una psichiatria attenta esclusivamente al modello medico-scientifico e avviò la battaglia per la distruzione del sistema manicomiale; attaccò gli strumenti di segregazione e di coercizione responsabili, negli ospedali, dei più importanti danni ai pazienti; affrontò la questione dell’isolamento e della reclusione che aggravavano gli aspetti della malattia e ostacolavano la riabilitazione. Il primo lavoro in questo senso fu la comunicazione La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. Mortificazione e libertà dello “spazio chiuso”. Considerazioni sul sistema “open door”, che presentò al I congresso internazionale di psichiatria sociale, Londra 1964 (ora in Scritti, I, pp. 249-258), nella quale raccoglieva le riflessioni di tre anni di lavoro. Anche la relazione La “comunità terapeutica” come base di un servizio psichiatrico. Realtà e prospettive, che presentò al convegno “Realizzazioni e prospettive in tema di organizzazione unitaria dei servizi psichiatrici”, Varese 1965 (ora in Scritti, I, pp. 259-282), spiegava le basi teoriche del suo operare e dava un preciso ragguaglio sui primi interventi a Gorizia. Vi sono già definiti i contorni principali del suo pensiero sul problema dell’istituzionalizzazione e viene accolta la tesi dei molti autori attenti ai fattori ambientali nella genesi della malattia mentale che consideravano i danni da istituzionalizzazione quasi come una unità sindromica.
Nella seconda metà degli anni Sessanta la posizione del B. si era consolidata e la sua esperienza accendeva nuove forze e suscitava nuovi interessi. I suoi allievi cominciavano a raggiungere nuove sedi e le sue idee si diffondevano trovando sostenitori e ospitalità in molti ambienti. Del resto, il momento socio-politico nazionale offriva spazi adatti per discutere in termini nuovi i temi dell’esclusione e dell’emarginazione del malato di mente e per proporre riflessioni sul dovere dello Stato sociale verso questi problemi.
Nel 1968, nel momento di più forte impegno, il B. lasciò Gorizia; sostenne che “bisognava allora incominciare ad uscire dall’istituzione, in un’azione pratica la cui attuazione a Gorizia, nel clima di difficoltà e di ristrettezza economica e psicologica in cui si era costretti a muoversi, avrebbe richiesto anni di attesa” (Introduzione generale ed esposizione riassuntiva dei vari gruppi di lavoro, in Scritti, I, p. XXV). Per qualche tempo si dedicò ad approfondire i temi del suo lavoro attraverso diverse pubblicazioni e compiendo viaggi di studio che lo portarono a prendere visione diretta di altre esperienze e di altri contesti. Fu dapprima negli USA come visitingprofessor di un Community Mental Health Center di New York, quindi a Parma dove diresse per un breve periodo l’ospedale psichiatrico. Nel 1971 assunse la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste, dove riprese e riorganizzò i temi della sua lotta antistituzionale. Il periodo triestino fu segnato dal lavoro per portare la psichiatria fuori dall’istituto, per rompere la barriera tra l’interno e l’esterno dell’ospedale; avviò il graduale smantellamento dell’istituto e organizzò il servizio esterno basandolo sul coinvolgimento dell’ambiente sociale e del contesto politico. Nel 1973 il B. fondò, insieme con un piccolo gruppo di operatori psichiatrici, il movimento di Psichiatria democratica che l’anno successivo tenne a Gorizia il suo primo convegno.
A Psichiatria democratica, nata come risposta organizzativa alle esperienze pratiche, alle riflessioni teoriche e alle occasioni politiche che nel decennio precedente si erano via via costituite in Italia come alternativa alla psichiatria ufficiale, aderirono molti operatori (medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali), ma anche familiari di malati e rappresentanti della cultura, della politica e delle organizzazioni sindacali.
A partire dalla metà degli anni Sessanta, la produzione scientifica del B. fu rivolta quasi esclusivamente verso temi di psichiatria istituzionale e testimoniò degli sforzi e delle energie profusi dalla psichiatria d’opposizione in Italia a partire dall’esperienza di Gorizia fino alla riforma del 1978. Vi si ritrovano i connotati del movimento culturale che, rispetto alle analoghe correnti europee e americane, presentava una duplice caratteristica: agiva in un paese segnato da un certo ritardo nello sviluppo sociale e appariva chiaramente politicizzato. Il B. e il gruppo dei suoi più stretti collaboratori produssero, in pochi anni, un rilevante numero di articoli e di volumi destinati a imporsi all’attenzione di vasti strati dell’opinione pubblica.
Nel 1967 fu pubblicato Che cos’è la psichiatria?, a cura dell’amministrazione provinciale di Parma (seconda ediz., Torino 1973), raccolta di documenti e contributi di vari autori, articolata intorno al dibattito che avvenne nell’incontro tra il personale dell’ospedale di Gorizia e quello dell’ospedale di Colorno (Parma) nel 1966. Il volume confermò le posizioni del B. contro certe pretese della psichiatria scientifica e contro l’impostazione tradizionale dell’assistenza asilare per affermare l’inutilità degli interventi tecnici che non fossero accompagnati da rinnovamenti strutturali. Discusse a fondo il ruolo del lavoro psichiatrico nelle diverse figure del medico, dell’infermiere e del malato, propugnando il superamento dell’ideologia custodialistica. In L’istituzione negata (Torino 1968) il B. riprese i temi del rifiuto di fronte alle ambiguità della scienza e della funzione politica della psichiatria; sosteneva la necessità di portare la battaglia antistituzionale fuori della sfera psichiatrica, oltre le pretese di neutralità della scienza, per ampliare la critica alle altre strutture sociali. I due volumi ebbero larga diffusione e fecero conoscere più ampiamente le linee sostanziali del suo pensiero.
Nel 1968 curò l’edizione italiana del libro di E. Goffman Asylums (Torino), uno dei testi più innovatori nella critica alle istituzioni discriminanti; ne scrisse l’introduzione, insieme con F. Ongaro, traduttrice dell’opera. Il lavoro del Goffman gli permise di riprendere il tema delle sfaccettature degli aspetti sociali della malattia e quello dell’ideologia scientifica come alibi e maschera della violenza operata nelle istituzioni per “persone socialmente indesiderate”. Nella lettura del Goffman appariva chiaro come l’immagine del malato in manicomio non fosse il risultato della malattia, ma mostrasse le stesse caratteristiche e gli stessi aspetti dei reclusi in altre istituzioni, anche non psichiatriche (carceri, case di riposo, ecc.). L’anno seguente, sempre in collaborazione con la Ongaro, pubblicò l’introduzione a Morire di classe, libro fotografico di C. Cerati e G. Berengo Gardin (Torino 1969), sulle condizioni asilari. In questo breve lavoro tornò a mettere in evidenza come fosse sterile rendere più confortevoli le condizioni in ospedale e confinare il lavoro di riabilitazione dentro l’ospedale; il lavoro indispensabile doveva essere quello di un idoneo collegamento con l’esterno e il rifiuto degli istituti che, anche se apparentemente non violenti, lasciavano intatto il problema. In questo senso si esprimeva anche la relazione La comunità terapetica e le istituzioni psichiatriche, al convegno su “La società e le malattie mentali”, Roma 1968 (ora in Scritti, II, pp. 3-13), nella quale mise in guardia contro il rischio che la stessa comunità terapeutica, nata come esigenza di rinnovamento e di rottura, si traducesse in una nuova ideologia. Nel 1969 apparve anche la Lettera da New York. Il malato artificiale (Torino 1969), nella quale esaminava gli effetti di una riforma innovativa in campo psichiatrico in un paese ad alto sviluppo tecnologico e socioeconomico. Questa analisi lo portava a formulare la critica che avrebbe successivamente sviluppato: interventi ricchi ed efficienti in apparenza, sostenuti da sviluppo tecnico e investimenti di energie, non cambiano la realtà di segregazione della devianza; le “istituzioni più tolleranti”, sotto l’apparenza di rapporti democratici, mantengono il ruolo originario di controllo sociale. In modo più ampio il B. riprese questi argomenti nella prefazione al volume di Maxwell Jones Ideologia e pratica dellapsichiatria sociale (Milano 1970, ora in Scritti, II, pp. 105-125). Pensava che il lavoro del Jones offrisse l’occasione per allargare l’analisi al di là dei significati realizzativi della comunità terapeutica, per ritornare sul tema della malattia mentale vista in una prospettiva che si ampliasse oltre la definizione medica e ne comprendesse la componente sociale. Ricordava che, se l’ambiente sociale è da ritenere corresponsabile dell’insorgere della malattia, allora deve essere chiamato ad influire positivamente sui processi di cambiamento. Inoltre Jones riproponeva una tesi accolta dal B., cioè che a livelli di sviluppo sociale ed economico diversi si trovano modelli ed espressioni istituzionali differenti, ma sempre finalizzati a mantenere il controllo delle regole sociali a sostegno delle strutture economiche e politiche.
Nel 1968 aveva curato la Relazione alla Commissione di studio per l’aggiornamento delle vigenti norme sulle costruzioni ospedaliere, per il ministero della Sanità (ora in Scritti, II, pp. 14-32). Il problema dei rapporti tra l’esclusione psichiatrica e quella carceraria è analizzato in alcuni articoli, tra i quali Psichiatria e giustizia, relazione al I convegno nazionale di Psichiatria democratica (Gorizia 1974), che apparve in La pratica della follia (ora in Scritti, II, pp. 222-236). Interessante è il lavoro Crimini di pace, scritto in collaborazione con la Ongaro, saggio introduttivo al volume Crimini di pace. Ricerche sull’intellettuale e il tecnico come addetti all’oppressione, Torino 1975 (ora in Scritti, II, pp. 237-338), che offre tra l’altro un confronto con le posizioni di R. Laing e J. P. Sartre.
Nel 1971 pubblicò il volume La maggioranza deviante (Torino 1971) in collaborazione con la Ongaro (ora in Scritti, II, pp. 155-184). Scrisse ancora alcune prefazioni: al volume di M.L. Marsigli, La marchesa e i demoni. Diario di un manicomio, Milano 1973, e al volume di R. Castel, Lo psicanalismo, Torino 1975, che riteneva il lavoro più serio di critica alla psicanalisi e al suo significato in rapporto alla struttura sociale. La sua posizione critica nei confronti dell’insegnamento psichiatrico quale veniva fornito dalle università si trova in Ideologia e pratica in tema di salute mentale, Roma 1975 (ora in Scritti, II, pp. 354-361); sosteneva che una buona formazione non potesse prescindere dal lavoro in manicomio.
Incaricato dell’insegnamento di igiene mentale nell’università di Parma, nel 1976 vinse il concorso per professore universitario nel gruppo delle discipline psichiatriche e fu nominato professore di neuropsichiatria geriatrica nell’università di Pavia. Egli peraltro non occupò quel posto e restò all’ospedale di Trieste.
Nel 1978 si giunse in Italia alla riforma della legislazione psichiatrica, in un clima sociale e politico animato da particolari fermenti che sostenevano esigenze di rinnovamento in diversi settori della vita sociale. Il movimento antipsichiatrico ebbe gran parte nel processo che indusse il Parlamento ad approvare la legge 13 maggio 1978, n. 180, “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. Nella identificazione popolare la legge 180 venne spesso definita “legge Basaglia”; del resto egli, nonostante le riserve, non rifiutò questa paternità.
Questa legge fu elaborata da una commissione parlamentare, dopo aver ascoltato qualificati rappresentanti della disciplina, compreso il Basaglia. Si può dire che la formulazione definitiva della legge raccolse elementi importanti del pensiero del B., ma non ne fu espressione completa: disponeva la chiusura degli ospedali psichiatrici insieme col divieto di aprirne di nuovi; spostava il cardine dell’intervento psichiatrico dagli ospedali al territorio con la creazione di una rete di centri ambulatoriali e di strutture intermedie; istituiva dei piccoli servizi psichiatrici di diagnosi e cura all’interno degli ospedali generali. Il B. si riconosceva negli articoli che decretavano la chiusura degli ospedali psichiatrici, ma metteva in guardia dalle contraddizioni del provvedimento.
Nella Conversazione a proposito della legge 180, pubblicata in Dove va la psichiatria, Milano 1980 (ora in Scritti, II, pp. 473-485), egli paventava il rischio che la legge, collocando la psichiatria all’interno della sanità, riproponesse quelle che egli definiva le “mistificazioni” della disciplina, riconducendo la sofferenza psichica a una connotazione di malattia nell’ambito positivistico della medicina. Temeva che questo vanificasse tutto il lavoro compiuto per focalizzare sui meccanismi sociogenetici la prassi della psichiatria e distogliesse l’attenzione dalla dimensione sociale del problema, a suo parere il processo di medicalizzazione poteva spegnere i fermenti critici, con l’inserimento del sociale nell’ambito sclerotizzato di una medicina tradizionale. Vedeva il rischio di mantenere i meccanismi di emarginazione, camuffati sotto l’alibi della malattia e della cura, anche senza lo schermo del concetto giuridico di pericolosità e di custodia che improntava la normativa precedente.
Nel 1978 si stava chiudendo anche l’esperienza di Trieste. L’anno seguente, il 1979, il B. si trasferì a Roma, dove assunse l’incarico di coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio. Aveva ormai raggiunto una vastissima notorietà sia in Italia sia all’estero.
Intorno all’opera del B. nacquero polemiche che egli non rifiutò mai di affrontare, usandole sempre come veicolo di diffusione di una problematica che voleva portare alla conoscenza di strati sempre più vasti dell’opinione pubblica. Si trattò di polemiche politiche, per le implicazioni socioeconomiche del suo pensiero e per le connessioni che la sua posizione mostrava con l’ideologia studentesca di quegli anni e con il dibattito sulla non neutralità della scienza. Si trattò di polemiche vivaci anche su un piano scientifico nel confronto con la psichiatria accademica e tradizionale; gli venne rimproverata una sorta di avventurismo per le radicali azioni contro la struttura ospedaliera, gli si rimproverò di trascurare gli aspetti biologici della malattia e di perseguire la politicizzazione della pratica psichiatrica.
Il B. fu certamente il principale punto di riferimento della psichiatria di opposizione in Italia, ma il suo pensiero si diffuse trovando collegamenti e sostegno anche all’estero. Alla sua figura si collegò la corrente di antipsichiatria italiana che, nel quadro delle teorie psichiatriche contemporanee, assunse una propria precisa dimensione, distinta da quella anglosassone. Il movimento italiano si trovò più vicino alle teorie sociogenetiche, nel rifiuto della specificità patologica della psichiatria e nella maggiore attenzione all’azione sul sociale. Il B. fu sempre il punto di riferimento della parte della psichiatria italiana che si riconosceva nei movimenti di opposizione, anche se le vicende successive alla legge di riforma e la nuova organizzazione mettevano in evidenza posizioni più articolate e segnali di dissenso. Egli emergeva come figura assai complessa e si collocava al centro del dibattito acceso tra diverse correnti della psichiatria, tra orientamenti e idee spesso tra loro inconciliabili. La sua posizione, in questo confronto, prendeva maggiore rilievo soprattutto dopo la legge di riforma che aveva contenuti innovatori così profondi e connotati così originali da richiamare sull’esperienza italiana appena avviata l’interesse e l’osservazione, si può dire, della psichiatria mondiale.
Negli ultimi anni collaborò a un progetto di prevenzione delle malattie mentali del Consiglio nazionale delle ricerche con una rassegna delle normative in campo psichiatrico: Appunti per un’analisi delle normative in psichiatria, pubblicato in Le ragioni degli altri, Roma 1979, e Legge e psichiatria. Per un’analisi delle normative in campo psichiatrico, in collaborazione con M.G. Gianichedda, Oxford 1979 (ora in Scritti, II, pp. 445-466). Tra gli ultimi lavori si trovano la prefazione a Il giardino dei gelsi, Torino 1979 (ora in Scritti, II, pp. 467-472), in cui proponeva un bilancio della legge 180, e il volume A psyquiatria alternativa. Contra o pessimismo da razão, o otimismo da pratica. Conferencia no Brasil, São Paulo 1979, che raccoglieva la serie di conferenze tenute in Brasile. Nel 1979 curò, insieme con la Ongaro, la voce Follia/delirio per il VI volume dell’Enciclopedia Einaudi, nella quale si trova riassunta gran parte della sua posizione teorica.
A poco più di un anno dall’approvazione della legge 180, che era stata nel frattempo integralmente accolta nella legge 833/1978 di riforma sanitaria, il B. si ammalava gravemente di cancro. Morì a Venezia il 29 ag. 1980.
A cura di Tommaso Losavio per Treccani